Sono giunta nei miei vari studi, alla conclusione che, la salute e il suo contrario, le malattie, negli ultimi anni hanno dato vita ad una lunga serie di temi legati oltre che alla ricerca, anche alla storia dell’istituzione medico-ospedaliera.
Operare una sintesi di questo genere è impresa assai ardua che mi ha obbligata ad alcune scelte di fondo.
Temi importanti, sono sicuramente: il rapporto fra l’insorgere della malattia e i livelli di alimentazione; il modo socialmente differenziato in cui “intellettuali” e “popolo” vivono la relazione con la medicina e la malattia; ed infine nella diffusa circolazione di pratiche terapeutiche di derivazione magico-religioso che appaiono, ora alternative, ora complementari alla medicina ufficiale.
Il problema sanitario, fino all’avvento delle vaccinazioni di massa e degli antibiotici è collegato più che al numero dei presidi sanitari alle condizioni di vita e, in primis alla questione del cibo; questa problematica si divide in due grandi quadri storici: il primo va dal medioevo all’età moderna e il secondo va da “un’economia rurale fino all’avvento della società industrializzata”.
Un’attenta lettura di quello che è il difficile e contraddittorio passaggio da una medicina che privilegiava il rapporto individuale ad una medicina maggiormente attenta alla complessità del corpo sociale, la si trova nei saggi di Francesco Bussacchetti e di Valerio Marchetti (il primo, porta avanti un’indagine distesa nel tempo, il secondo lo svolge attraverso un approfondimento tematico).
Essi individuano lo svilupparsi di una maggiore attenzione rispetto a quegli aspetti specialistici legati al sesso, all’età e alle aree d’intervento.
Ma accanto a questa evoluzione di tipo specialistico, se si affronta una lettura dei trattati medici del Seicento si colgono i caratteri contraddittori di quest’ultima: i consigli terapeutici non solo appaiono divisi per ceti sociali quanto a modelli alimentari, ma appaiono anche riflettersi nella vera e propria complessione fisica dei pazienti, e quindi nelle patologie differenziate a cui danno luogo.
Come si è detto, un terzo elemento di raccordo fra le pagine che seguono è quello rappresentato dalla ricerca di una protezione dalla malattia alternativa a quella della scienza medica, ad esempio: il reticolo dei santuari, degli itinerari e i percorsi realizzati alla ricerca della salute (Engel, 1972).
Al lettore contemporaneo non è facile immaginare il ruolo e il peso che, nelle società preindustriali, era costituito dalla protezione non medico-sanitaria contro la malattia. Le immagini, la parola “scritta”, e la parola “parlata” dominavano costantemente a diversi livelli di consapevolezza e di cultura, gli atteggiamenti individuali e i comportamenti collettivi che si delineavano specie in occasione di epidemie. Si pensi alla diffusione delle raffigurazioni pittoriche di santi come Rocco e Sebastiano che nella loro funzione mediatrice dovevano mitigare la collera divina e quindi limitare l’incidenza e la gravità della pestilenza.
La presenza anche se resa col tempo più marginale, degli uomini di chiesa fra i guaritori ci mostra la persistenza nel corso dell’Ottocento di un rapporto fra i diversi terreni (religioso, magico, “popolare”), complementari allo spazio sempre più ampio riservato al medico e al suo sapere ufficiale (Salvarini, 2003).
Naturalmente queste brevi linee d’indagine non esauriscono il quadro delle problematiche sopra presentate. Infatti ogni patologia va letta e studiata secondo ottiche diversificate e anche contrapposte: l’istituzione e i modi del suo operare, del suo controllo e del suo intervento; l’operatore sanitario e il suo grado di conoscenze e gli strumenti a sua disposizione; l’impatto sulla collettività; la reazione individuale e personalizzata. Nessuno di questi approcci esclude gli altri, se mai al contrario ogni uno esige la compresenza d’altre letture.
La malattia non può essere “separata dall’idea che se ne fanno il malato e la cultura del suo paese e del suo tempo”, anche se in ultima analisi l’idea che prevale in ogni epoca e ad ogni latitudine è dominata dalla paura: paura dell’ignoto, paura del male, paura del castigo divino, paura della morte (Engel, 1972).
Ragioni diverse hanno portato a concentrare le energie sul terreno delle malattie e della sua relazione con la realtà materiale e con il mondo culturale in cui maturano gli interventi per controllarla e sconfiggerla. E’ rimasta dunque un po’ nell’ombra il quadro istituzionale, e soprattutto il discorso sull’evoluzione delle strutture ospedaliere.
A tal proposito propongo all’attenzione il carattere ambiguo del Lazzaretto[1] di Firenze: la sua fondazione obbediva alla volontà di aprire le porte della misericordia ad ogni strato sociale, ma i tempi lunghi della sua realizzazione, l’aleatorietà delle risorse e i pochi letti disponibili rendevano l’intento originario retorico e propagandistico. In realtà questa concezione restrittiva dell’intervento caritativo s’incontrava con l’opinione, sempre più diffusa a partire dal tardo Quattrocento, di una accentuata pericolosità dei mendicanti e di poveri visti come un veicolo di diffusione delle malattie.
Dunque le richieste di legge e d’ordine da parte della Signoria fiorentina s’inseriscono in questo mutato quadro ideologico e culturale (Biraben, 1976).
I precedenti e l’evoluzione dell’assistenza all’infanzia
L’assistenza ai bambini abbandonati viene in generale istituzionalizzata a partire dal XII-XIII secolo, in concomitanza al fenomeno del generale sviluppo di luoghi di ricovero destinati al soccorso degli emarginati, a seguito del notevole aumento demografico e della corrispondente urbanizzazione. È da quest’epoca infatti che le istituzioni assistenziali di tipo “ospedaliero”, nell’accezione più antica del termine, iniziano a prendersi cura sistematicamente anche dei bambini abbandonati (Giardina, Sabbatucci, Vidotto, 1988). Ogni altra iniziativa di tipo istituzionale precedente quest’epoca, che esuli cioè dalla raccolta casuale dei bambini nei luoghi più disparati- ma con lo sviluppo del cristianesimo, come avverte John Boswell, erano sicuramente privilegiati i luoghi di culto e i monasteri- pare in genere rimanere conclusa in una atipica sporadicità, testimone tuttavia, dell’esistenza e problematicità di un fenomeno che del resto pare affondi le sue radici ed abbia inizio nell’origine stessa dell’uomo (Boswell, 1991).
Nonostante infatti l’eccezionalità delle testimonianze relative al precoce sviluppo di istituzioni dedite all’accoglimento dei bambini abbandonati a Milano già nell’VIII, nel X e nell’ XI secolo, si può affermare che è solo alla fine del XII e, prevalentemente, nel corso del XIII che compaiono di regola un pò ovunque, norme e disposizioni sull’accoglimento dei bambini negli ospedali, dediti in genere, come è noto, ad una attività tipicamente medievale poliassistenziale (Albini, 1993).
Mancano invece per Firenze, per questo stesso periodo, il Duecento o meglio la fine del Duecento, testimonianze precise, di un’attività assistenziale organizzata, rivolta ai piccoli abbandonati all’interno delle mura, dove, presumibilmente, si ha ragione di pensare che confluissero in genere nelle chiese e negli ospizi loro annessi.
Nel corso del Duecento, verso e oltre la metà, tuttavia si ha un’attenzione precisa al recupero dei bambini in città e nel Trecento, un valido sostegno alla cura dei bambini ( Passerini, 1853).
Il Quattrocento, è stato indicato dagli storici come un periodo di notevole sensibilità verso i trovatelli (quasi tutti gli ospedali del tempo identificarono, difatti, tale attività caritativa), sensibilità che pare tradursi tuttavia, per alcuni esperti, in un aumento generale del numero degli “esposti”, come è stato riscontrato per quest’epoca da Richard Trexler per la stessa Firenze e proprio dal momento dell’apertura del grande complesso assistenziale loro unicamente destinato.
Già alla fine del XV e XVI secolo, pare terminare o si evolve diversamente secondo nuovi schemi assistenziali la consueta tolleranza, testimoniata per i secoli precedenti nei confronti del fenomeno dell’abbandono dei bambini abbandonati (Hunecke, 1981).
L’attenzione nei riguardi degli abbandonati, che pare prendere corpo in questo periodo di transito tra XV e XVI secolo, appare, infine tutto sommato, conseguenza di una maggiore attenzione verso l’infanzia e, insieme, tentativo di diversificazione degli interventi ad essi destinati, che tuttavia si attuano con modalità (mi riferisco alla discriminante dell’età) dalle quali traspare già in quest’epoca il rifiuto della pratica dell’abbandono che non sia dettato da casi di estrema, inevitabile, necessità, quali appunto la salvaguardia dell’onore per gli illegittimi (i neonati), la morte di uno o di entrambi i genitori per gli orfani (i bambini di pochi mesi o di qualche anno). Per i legittimi, il cui numero cresce notevolmente, sino ad includere anche bambini già grandi, è lontano, infatti, per quanto ciò possa sembrare paradossale, il riconoscimento proprio dei secoli successivi, in piena età moderna, del diritto ad una assistenza pubblica, sia pure nuovamente legata al loro rientrare in vari stadi di necessità, quali ad esempio l’impossibilità della madre ad allattare o una sua qualche infermità.
L’8 aprile 1802 nasceva in Firenze una cattedra di pediatria per iniziativadel re d’Etruria Lodovico I di Borbone[2], che ne affidava l’incarico al prof. Gaetano Palloni, il quale era incaricato di tenere lezioni teoriche e pratiche nell’Ospizio degli Innocenti (Giardina, Sabbatucci, Vidotto, 1988).
Nello stesso anno, l’illuminato re d’Etruria, così sensibile al problema della medicina infantile, ripristinò il posto di dissettore presso l’Ospizio degli Innocenti dandone l’incarico al prof. Giuseppe Nannoni, perché esercitasse autopsie sui cadaveri dei bambini al fine di approfondire le cause dei loro decessi e di integrare facendo l’insegnamento clinico con quello anatomico. Giuseppe Nannoni era figlio di quel Lorenzo Nannoni che per dieci anni era stato lettore di anatomia e chirurgia in quella stessa sede[3]. Nel giugno 1807 la regina reggente Maria Luisa di Spagna, ripristinò la cattedra di pediatria affidandone l’incarico allo stesso dott. Giuseppe Nannoni e si dice che la regina si fosse ricreduta perché allarmata dalla forte moria di bambini e stimolata dai medici della facoltà. Ma anche questa volta la Scuola di pediatria fiorentina non ebbe fortuna, perché con gli sconvolgimenti provocati dalle gesta napoleoniche, tutte le vecchie istituzioni furono soppresse o rinnovate e, quando ancora nel corso dello stesso anno 1807 la Toscana divenne provincia francese, la Scuola venne definitivamente chiusa (Henderson, Pastore, 2003).
Nel corso del XIX secolo l’Italia fu sconvolta dalle guerre risorgimentali che sappiamo e si dovette attendere il raggiungimento dell’Unità nazionale, prima che i governi di allora mettessero mano alle moderne istituzioni; perciò dovremo attendere quasi tutto il XIX secolo prima che in Italia compaia nuovamente una scuola di pediatria, sull’esempio delle altre nazioni europee. Se l’Ospedale degli Innocenti di Firenze fu la prima sede dell’insegnamento pediatrico, peraltro transitoria, ma pur sempre la prima, Parigi vide nascere nel 1802, in piena epoca napoleonica, il primo vero ospedale pediatrico, il 13 maggio di quell’anno. L’ospedale, che venne chiamato “l’Hopital des enfants malades”, fu allestito all’interno di un vecchio convento di monache che nelle diverse epoche era stato variamente utilizzato, finchè, nell’epoca della Rivoluzione, era divenuta orfanotrofio amministrato dagli Istituti ospedalieri, la “Maison de l’Enfant Jesus”. L’Ospedale fu subito dotato di 300 letti ed ospitò bambini dai 2 ai 15 anni. La beneficenza privata consentì, di lì a poco, di portare il numero dei letti a 660, perché il successo dell’operazione aveva superato ogni possibile previsione.
Accanto ai reparti di degenza fu istituito anche un ambulatorio per l’assistenza dei bambini meno gravi per i quali non era necessario ricovero. Nella stessa sede si svolgeva un’attività di diffusione degli elementi di puericultura alle madri delle classi popolari (Hunecke, 1991).
Nel tempo, e soprattutto nell’ultimo cinquantennio, la concezione di salute e malattia si è profondamente modificata nella cultura occidentale: da un lato, i sostanziali avanzamenti scientifici e tecnologici hanno aperto nuovi orizzonti di cura e prevenzione di patologie altrimenti non trattabili; dall’altro, la crescente consapevolezza dei cittadini del proprio ruolo attivo nella gestione della salute ha fatto uscire la medicina e le strutture dall’ambito strettamente diagnostico-terapeutico, e ha modificato le richieste e le aspettative degli utenti. L’ospedale diviene pertanto una crocevia di interazioni umane caricate di valenze e di attese anche se non sempre reali.